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LE MIE PRIGIONI CATANESI

le-mie-prigioniEtimologicamente un monumento è qualcosa che serve a “ricordare”Ricordare, significa soprattutto trasmettere alle generazioni future la memoria di luoghi, personaggi ed eventi che fanno parte della Storia – quella con la S maiuscola – quella fatta da Re e Imperatori, eroici trionfi in battaglia e fasti cortigiani. Ma accanto ad essa c’è una storia, ingiustamente definita “minore”, fatta di uomini e di donne che vivono ai margini della Storia con le loro storie di sofferenza e quotidiana lotta per la sopravvivenza.

Castello Ursino nel corso dei suoi quasi otto secoli di Storia, ha raccolto memoria di parlamenti e di leggende, ha ospitato militari e sovrani, ha vissuto rapimenti romanzeschi e furenti assalti, ha respirato il sale del mare e lo zolfo della lava.

Ma al visitatore che oggi percorre le sue sale, Castello Ursino racconta anche altre storie, quelle dei prigionieri che fra il XVI e il XIX secolo furono rinchiusi nei dammusi oscuri e tetri, infestati da scorpioni e pipistrelli, e che incisero le proprie storie sulla pietra, con la forza della disperazione e alla fioca luce della speranza.

A volte sono solo un nome e una data, o un semplice Vinni carceratu. Altre volte la pietra racconta molto di più. Diego La Marca confessa esplicitamente che « si trova in questo carabozzo pur aver fatto un omicidio». Altri raccontano storie di ordinaria omertà – «Rude mi faciu pi no diri no diponire» – ma un tale Antonino Pulvirenti, nel 1609, dichiara di trovarsi lì «pi no deponiri la bucia». Altri proclamano la propria innocenza, e di essere stati traditi, come un tale che nel 1595 «patiu a tortu pir unu amicu », o un altro che se la prende con chi lo ha tradito: «Ai timpurariu curnutu».Ma la verità è quella che proclama un prigioniero anonimo: «Iddio mi vede», ed in quell’oscurità si affida alla giustizia divina, l’unica che può far veramente luce sul suo animo, colpevole o innocente che sia.

Poi ci sono coloro che riescono comunque a scherzare, come un tale che prende in giro qualcuno che si è fatto acciuffare: «Carcerato venisti, va ca fusti asinu si». O un altro che non vuol sentirsi rimproverare errori nelle iscrizioni realizzate in quelle difficili condizioni: «Chistu scrittu è fattu allu scuru a chui non ci piaci mi baasa lu culu e cui sei e dici chi non è fattu giustu ci vegna la frevi e puru lu fr…» La speranza, merce pregiata per chi si sente quasi sepolto vivo nell’oscurità del carcere – «Carcera in vita e sepoltura in morti» – e quasi aspetta la morte come una liberazione – «Chi temi fugi et ju la morti chamu». Ma c’è chi alla speranza non rinuncia, come Andrea Bonanno, per cui il carcere è luogo di sofferenza, ma non di morte – «chi si si pati no si mori».

Fra le tante scritte, colpisce quella di un tale Don Rocco Gangemi, per la profondità dell’incisione e i caratteri cubitali con cui scrive, amaramente, «Miseru cui troppu ama e troppu cridi». Nella mezza torre est fu invece rinchiuso un tale Filippo Mancuso, che doveva evidentemente possedere una cultura superiore, e tappezzò i muri della cella con massime latine e citazioni bibliche.

Oltre ai dammusi oscuri delle sale interne, altre celle erano state ricavate nel cortile: lì la vita era certamente più facile, e chi poteva corrompeva i soldati per farsi spostare. Qui, sul portale che immette nella Cappella, troviamo i graffiti più straordinari. Una riflessione sulla vita in carcere, e sulle sue conseguenze:

  • CHISTV E’ VNLOCV MISERV EINFILICI
  • LOCV DI CRVDELTA’ DI VITA AMARA
  • CHA SI CVNTENPLA CHA SI PARRA E DICI
  • E CHA DISCVNTINTIZZA SI VA A GARA
  • CHA SI FANV CUNTENTI LI NIMICI
  • CHA PARIA CVI FVRTVNA NO RIPARA
  • A STV LOCV SI PROVANV L’AMICI
  • E A STV LOCV S’IMPRINDI E S’IMPARA

O una poetica, amara, meditazione sulla vita:

  • ORA CHI PRIVV SV DI LIBERTATI
  • OMNES AMICI MEI DERELIQVERUNT
  • TANTE AFFANNE E MARTIRI HAI SVDATI
  • ET OMNIA MEMBRA MEA LAXA FVERVNT
  • TVTTI L’AMICI MEI COMV ET FRATI
  • SICVT IVDAS MIHI TRADIDERVNT
  • ORA PACENZIA CHISTV CORI PATI
  • NON SINE CAVSA PECCATA FVERVNT

L’autore, tale Giuseppe Privitera, dovette forse conoscere alcune poesie di Antonio Veneziano di cui si riconoscono gli echi, ma soprattutto quelle del menenino Antonio Maura con cui esistono puntuali paralleli. A queste iscrizioni, si aggiungono poi i disegni, in cui la precisione dei dettagli e la forza dell’incisione diventa simbolo delle sofferenze o della speranza di libertà dei carcerati.

Le proprie sofferenze, assimilate a quelle di Cristo nelle numerose croci che riempiono le pareti; fra queste la più interessante è sicuramente la croce, che domina l’interno del grande arco nella parete ovest del cortile, circondata dai simboli della passione e caratterizzata da nodi di Salomone ai vertici.

Ancora più evocativi i disegni alla base del portale della Cappella: una torre con un cannone, forse una rappresentazione del bastione su cui sorgeva il Castello. E poi quattro navi, che a vele spiegate, vanno via verso la sospirata libertà, verso una vita nuova.

Mundus rota est.

di Matilde Russo [pubblicato in Katane, Marzo 2010]

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